Monday, November 13, 2006

zetazero

Nel vicolo sconosciuto fui portata dal naso
Riconobbe il muschio stesso della mia orchidea
L’odore di cornici al guinzaglio della pancia
Scaldaletto e oliera di rame fissi alla croce
Al chiodo, alla piazza. ci vidi dentro la pupilla
Del tempo inappartenuto e universale
Come gli occhiali di tante nonne all’uncinetto
Alla maglia, alla preghiera ossidata, buttati lì
Senza volto, nome, occhi dita ginocchia
Guance disossate, respiri di bambole
Di cera alla mercé di un pomeriggio nella bassa
Sfocato, con l’acqua ai pennarelli brumosi di nord
Più neri alla gola di foschie e luci da vecchiaia
Del mondo, dagherrotipo secco ancora
Moribondo, l’inchiostro muto.
Si direbbero ingravidate solo dallo spirito notturno
Donne di lavoro terra e notte.
Qui è il volto rovesciato all’indietro del progresso
Tutto è antico qui e il futuro solo dal buco della fine
Si intravede. Perché ci fu cammino e il cammino
Azzardò pretese prometee senza beneficio. Un rogo lento
Travestito di progresso. Voi, noi, alla punta
si restava
Cullando un Eterno senza moto movimento il moto
Proprio dell’umana Specie, moto proprio del tempo
Evanescente. Prescienza.
Goliardi, il cerchio ai fianchi dondolante, altro non aspettano
Che il Cerchio ritornare. Altro non aspettano, oh estasi,
Che il cerchio Ritornare.
(Ma la donna del bosco prese la borsa e me la diede
Vera pelle, certo! per il pegno da portare da mia madre:

“Questo sacrificio al gelo non impallidisca
Il sole Mio di sempre, la figlia prodigiosa
Il cerchio ormai spezzato
Conficcato come spada alla caviglia”).

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